
Damien Hirst isn’t better than me
Salvatore Masciullo – Damien Hirst isn’t better than me.
Damien Hirst isn’t better than me. In effetti, la formazione atipica, la capacità di cogliere e trasferire la complessità, il gusto della provocazione e dell’invenzione, la cura maniacale per i particolari, il concepire l’arte come un concerto rock, piuttosto che un incontro di menti sopraffine o un cocktail party, sono tutte cose che accomunano Salvatore Masciullo e la star evocata nel titolo dell’esibizione.
Il fruitore non deve essere rassicurato, confortato, gratificato, non gli si deve dare la possibilità di ridere sotto i baffi per aver colto un guizzo o vantarsi di aver individuato la fonte di una citazione.
Il pubblico deve essere preso a calci in bocca, ma soltanto perché la cattiveria è sempre meglio della mancanza di rispetto che si nasconde nell’operato dell’artista cortigiano.
Questo titolo, poi – che non è un titolo, ma un’asserzione – suona provocatorio di per sé, eppure non è una semplice provocazione.
Qualcuno, un bel po’ di anni fa, parlando di Nick Cave, ne aveva ravvisato la grandezza nella foga che metteva nei suoi show, che fosse davanti a dieci persone in un club fumoso o alla marea di folla di un mega festival estivo. Follia o onestà? Né una, né l’altra: è quella cosa indefinibile che fa di uno che taglia squali a fettine, canta o dipinge un artista.
Mi guardo intorno in questa sala del museo Cavoti, che Masciullo è riuscito a trasformare nel corridoio incustodito di una stazione di metropolitana mitteleuropea, e mi chiedo: “Ma cosa vuole fare?”.
Qualche giorno dopo entro nel suo studio. Stencil, fogli di giornale, ritagli, vecchie opere riprese e rivoltate. Sembra il covo di un sovversivo, più che lo studio di un pittore e, anche se me ne parla, e comprendo, e in parte condivido quello che dice, la mia domanda resta senza risposta.
Passano altri giorni, fatti di consuetudini, preoccupazioni, riflessione sotto traccia. Se ci penso bene, quella domanda, “Ma cosa vuole fare?”, me la sono posta sempre di fronte a persone che stavano combinando qualcosa che non ero in grado di classificare secondo criteri a me noti. In una parola, qualcosa di nuovo.
Stencil sporchi di vernice, slogan anarchici, matrici di cartone intagliato, di rabbia iconoclasta, appese ai muri come trofei di caccia all’idea politica, che è affascinante come un animale selvatico, ma proprio come lui troppo feroce e imprevedibile per essere lasciata girare libera.
Iconografia sacra, schegge di grafica antagonista, repertorio kitsch: gli accostamenti abrasivi non riducono la potenza intrinseca delle immagini. La scelta delle icone mette in luce lo spirito provocatorio dell’artista, ma c’è dell’altro. Sacro e profano, foto provocatorie, ai limiti del cattivo gusto e della pornografia, immagini sacre, tutto è ritessuto secondo il faticoso lavoro di manipolazione dei contrasti, regolazione dei toni, giustapposizione di pennellate, sovrapposizione di strati pittorici.
Questo lavorio, che è una manifestazione visibile del modo di pensare e di agire di Masciullo, non è immediatamente percepibile, ed è proprio il notevole carico di significato delle icone a fare quasi scomparire la pittura. Non utilizzo l’espressione “far passare in secondo piano” perché è esattamente il contrario. La pittura ha il compito, forse anche ingrato, di dare forma a messaggi visivi che non la aiutano a risaltare in quanto tale, ma il suo pulsare, formicolare, generare ritmi nascosti, improvvise rincorse tra figura e sfondo e piccole detonazioni nel tessuto delle immagini, conferisce un senso tragico a questo spazio del museo aggredito dall’artista.
Ormai sono numerosi gli artisti contemporanei che giocano con l’arte del passato e testimonianze visive chiave del presente, occupando grandi spazi, invadendo aree pubbliche, cercando di incontrare lo sguardo distratto dell’uomo della strada. Il mezzo che molti di loro utilizzano per uniformare l’immenso repertorio di immagini di cui si servono, provenendo in molti casi dal mondo dalla street art, è lo stile. Anche se uno sguardo poco attento alla sua produzione potrebbe far pensare il contrario, la formazione di Masciullo ha davvero poco a che fare con questo mondo, pure ormai colto ed estremamente vario. Lo stile, nell’accezione della street art, è dato da un insieme di procedimenti e caratteristiche legate alla sintesi delle immagini e all’utilizzo degli elementi del linguaggio visivo che rendono il lavoro di un artista immediatamente riconoscibile. Masciullo non è ossessionato da questo aspetto: se i suoi lavori risultano riconoscibili, è solo perché i risultati della sua ricerca, soprattutto in questo momento del suo percorso, generano effetti visivi peculiari, ma lui rimane fondamentalmente un “pittore pittore”, chiuso nel suo studio, ripiegato su se stesso, a caccia di nuovi problemi, assillato dalla balena bianca di nuove soluzioni, tutte riguardanti essenzialmente il mondo delle immagini. Quello che, invece, lo accomuna maggiormente agli street artist più schierati e coraggiosi è la passione politica, l’urgenza di prendere posizione, di dire la sua, raggiungendo il maggior numero di persone possibile.
Mi ero chiesto: “Ma cosa vuole fare?”. La risposta potrebbe essere incredibilmente banale, a fronte della complessa poetica che l’artista sta tessendo. La sua capacità di gestire le infinite variabili del linguaggio pittorico, il coraggio nel risvegliare il potere di immagini pregne di significato e di manipolarle per i suoi fini comunicativi, la necessità di esporre le proprie idee sono tre linee d’azione che si sovrappongono, si incrociano, qualche volta producono incidenti di percorso, qualche altra sublimi scontri di senso.
Masciullo vuole fare arte, ma anche politica. Sono molti gli artisti ad aver fatto e a fare politica, ma c’è una sostanziale differenza tra l’opera di chi utilizza i suoi mezzi per trasmettere idee politiche e chi fa arte sentendo la necessità di schierarsi: i primi tendono a sfruttare la propria poetica per comunicare, togliendo forse qualcosa alla propria arte ed anche alla forza delle idee. Questo perché è il visual designer a servirsi del linguaggio visivo per richiamare l’attenzione, invitare, invogliare, indignare, convincere, piegando la sua creatività alle necessità comunicative, mentre l’artista non può farlo fino in fondo, a meno che non faccia parte della seconda categoria. A quest’ultima appartengono gli artisti che fanno della politica uno dei pilastri della propria poetica, e credo che Masciullo ne faccia parte.
Gli slogan urlati dagli stencil, le immagini urtanti, gli accostamenti dissacratori non sono più dei mezzi che l’artista usa per provocare e manifestare le sue idee, ma termini del suo personale linguaggio.
“It’s a just a game”, recita lo stencil posto in cima alla porta da cui si entra nella sala del museo prestata al pittore, che l’ha sistemata proprio dove, se fossimo in una cattedrale, ci sarebbe un rosone. La grande finestra circolare è il faro dello spazio sacro, e forse questa frase ci illumina ulteriormente sugli intenti del pittore. Soltanto un gioco, quello ineffabile dell’artista che governa il suo mondo personale secondo le sue regole ideali, gettando uno sguardo spaventato, critico, arrabbiato su quel mondo reale che poteri ed eminenze sempre meno grigie sembrano non voler sottrarre alla violenza, o addirittura voler gettare deliberatamente nel caos per trarne esclusivo vantaggio.
Giovanni Matteo